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Lavorare a livello relazionale e con ottica evolutiva nella Psicoterapia Integrativa: Agevolare un cambiamento significativo nel copione

Questo articolo è pubblicato sulla Rivista Internazionale di Psicoterapia Integrativa. Tradotto da Silvia Allari

Abstract
Questo articolo parla di Giuseppe. La sua storia, le vicissitudini della sua infanzia mi hanno coinvolta sia professionalmente che personalmente. Nonostante Giuseppe abbia attraversato esperienze dolorose, abbia dovuto lottare fin dalla nascita a causa una malattia congenita, mantiene il desiderio di vivere la vita pienamente. È fortemente motivato e impegnato nella psicoterapia per raggiungere un sé sano e vitale anche se è gravato da una disabilità fisica.
Voglio condividere la storia di Giuseppe per la stima e l’affetto che ho per lui e perché il lavoro riflette la mia crescente competenza come psicoterapeuta integrativo.

Giuseppe

Comincio con un evento recente, anche se, al momento in cui scrivo, la psicoterapia di Giuseppe è ancora in corso. Durante una seduta di terapia di gruppo, qualche mese fa, ho visto per la prima volta un’espressione di pura gioia sul viso di Giuseppe. I suoi occhi brillavano di eccitazione, speranza e fiducia. La nostra seduta di gruppo sta per iniziare e la felicità di Giuseppe è contagiosa. Sono desiderosa di sentirlo parlare, è evidente che ha alcune importanti notizie che stava per condividere. All’inizio della sessione, Giuseppe chiede immediatamente di parlare. Non riesce a stare fermo sulla sedia e si strofinava le mani soddisfatto. “Ho alcune notizie per tutti voi. Ho firmato il contratto. A partire da settembre lavorerò in quel posto di cui vi ho parlato. Mi hanno assunto!” I membri del gruppo sono eccitati e battono le mani. Sono commossa e spontaneamente applaudo anch’io. Qualcosa di positivo sta emergendo nella vita di Giuseppe.

Giuseppe continua a parlare del suo futuro lavoro, di come sarebbe stato formato e del suo desiderio di apprendere nuove competenze. Gli altri gli fanno molte domande. Luca, che fa il commercialista, chiede a Giuseppe informazioni sulla proposta economica poiché Giuseppe è nuovo nel mondo degli affari. Giuseppe racconta il salario che gli è stato offerto e Luca chiede ancora: “è l’importo lordo o netto?” Luca si propone come un padre premuroso e protettivo che offre sostegno in modo gentile e sensibile. Francesco si è alza e batte un cinque a Giuseppe: “sei fantastico, sapevo che ce l’avresti fatta”. Francesco è come un fratello per Giuseppe. Francesco empatizza profondamente con i sentimenti di Giuseppe e questo lo aiuta ad esprimere i propri. Cecilia chiede a Giuseppe chi sarebbero stati i suoi colleghi e in quale situazione relazionale si sarebbe trovato. Cecilia è come una sorella per Giuseppe, supportiva e solidale. Sofia prende la parola: “Giuseppe, sei stato un grande. Congratulazioni!”. Quando Giuseppe è entrato in gruppo, Sofia (che era già parte del gruppo da due anni) si era relazionata con lui come una sorella maggiore, gelosa, con la tendenza a escludere piuttosto che a includere. Ora dimostrava d’aver stretto un forte legame materno con Giuseppe, fatto di amore, sostegno, incoraggiamento e cura. Anche Maria dice la sua. Il lavoro è per Maria uno strumento fondamentale di identificazione e rivalutazione di sè stessa. Da qualche tempo aveva iniziato a identificarsi con le parti positive, che il suo recente successo professionale le aveva permesso di far emergere: “capisco perfettamente perché sei così soddisfatto, Giuseppe. Essere riconosciuti a livello professionale è importante.”

Osservo le dinamiche del gruppo e ne prendo parte con grande gioia. Fin dall’inizio, eravamo stati coinvolti in un processo relazionale di gruppo in cui ogni membro era incoraggiato ad essere attivamente impegnati nel benessere degli altri (Erskine, 2015).

Sebbene Giuseppe non abbia ancora terminato la sua psicoterapia, ha raggiunto un traguardo importante. Ha rivalutato le reazioni, le conclusioni e le decisioni della prima infanzia che costituivano il nucleo del suo copione di vita, quel copione per il quale aveva perso la speranza e la fiducia sia in sè stesso e negli altri. Un copione che gli impediva di trovare un senso di calma interiore e di significato nella vita e che lo portava a filtrare, mettere in primo piano, conferme di rinforzo atte a sostenere la sua convinzione di base “non avrò mai una buona vita”. Ora, nella sessione appena descritta, Giuseppe esprime una posizione differente e dichiara: “Posso riuscirci. Sono cambiato. La vita ha un significato!” (O ‘Reilly-Knapp & Erskine, 2010).

La storia di Giuseppe

Giuseppe è nato con una grave disfunzione intestinale. Ha avuto il suo primo intervento dopo la sua nascita e il secondo a soli 2 mesi. Il secondo intervento ha portato a un errore medico che ha richiesto cinque interventi chirurgici aggiuntivi. Giuseppe, che ora ha 33 anni, vive con una protesi esterna permanente.

Dopo la sua nascita, Giuseppe ha trascorso molto tempo in un’incubatrice e più tardi, durante l’infanzia, è stato confinato in un letto d’ospedale per periodi di tempo prolungati. I suoi unici compagni erano le infermiere, i medici e gli altri pazienti. Quando Giuseppe nacque, sua madre aveva solo 18 anni e suo padre solo 20. Vivevano in un piccolo paese nel sud Italia ed erano in difficoltà economiche. Quando Giuseppe aveva 4 anni, nacque la sorella minore, Rachele. Rachele è fisicamente sana. ma soffre di gravi problemi psicologici.

I genitori di Giuseppe erano inesperti nella vita e impreparati ad affrontare le esigenze di salute del figlio. La solitudine e l’assenza che Giuseppe sperimentava e a cui faceva spesso riferimento in psicoterapia, era più il risultato della giovinezza e dell’inesperienza dei suoi genitori che della loro incapacità di connessione emotiva e sintonizzazione.

La Psicoterapia

Giuseppe ha iniziato la psicoterapia 3 anni fa. Ho lavorato con lui in sedute individuali per 18 mesi. Un anno e mezzo fa l’ho invitato a unirsi ad uno dei miei gruppi di psicoterapia relazionale che conduco settimanalmente. Nel gruppo relazionale i partecipanti sono convolti in un processo relazionale basato sull’onestà e l’autenticità. Erskine (2010) descrive questo tipo di gruppo di psicoterapia come segue: “la guarigione dallo stress e dal trauma può anche verificarsi attraverso le molteplici relazioni di un’efficace psicoterapia di gruppo in cui i membri del gruppo sono coinvolti e in sintonia con l’affetto, il ritmo, i bisogni relazionali, la cognizione e l’età evolutiva di vergogna, abbandono o trauma dell’altro. (p.1)

Il gruppo ha fornito a Giuseppe uno spazio terapeutico in cui ridefinire sè stesso, creare nuovi atteggiamenti nei confronti della vita, abbracciare le proprie capacità adulte e rafforzare la fiducia nelle relazioni con le persone. Diversi aspetti della terapia relazionale di gruppo hanno facilitato la crescita psicologica di Giuseppe:

  • L’umanità condivisa degli altri membri del gruppo
  • La presenza nel contatto dei membri del gruppo e di me come terapeuta
  • L’indagine autentica che si rivolge ad ogni persona, ognuno ha il proprio spazio di approfondimento su di sé e di ridefinizione del proprio sé rispetto agli elementi disfunzionali
  • Scambio onesto e feedback chiaro
  • Atmosfera di accettazione, calore e amore

La sofferenza emotiva e la bassa autostima di Giuseppe hanno avuto inizio a causa della scarsa presenza materna, quando era un bambino, e si sono confermate per le ripetute interruzioni di contatto interpersonale durante la sua infanzia. Nel gruppo Giuseppe ha trovato relazioni premurose e solidali rispetto a ciò che egli era e a ciò che voleva diventare. I membri del gruppo hanno risposto in particolare ai suoi vari bisogni relazionali. Erskine ha descritto otto bisogni relazionali e il loro significato in varie età dello sviluppo (Erskine, Moursund e Trautmann, 1999).

I bisogni relazionali rappresentano uno dei concetti che mi ha maggiormente catturato nella Psicoterapia Integrativa. I bisogni relazionali concettualizzano, rendono chiara ed esplicita la funziona terapeutica del gruppo come setting centrato sulla relazione.

Il gruppo ha aiutato Giuseppe ad identificare e soddisfare i bisogni relazionali che aveva iniziato a riconoscere nella sua terapia individuale. In particolare il gruppo:

  • Ha offerto una presenza costante, coerente e sicura, nonché un luogo in cui poteva essere sé stesso senza la paura di perdere il rispetto degli altri (il bisogno di sicurezza);
  • Era interessato ad ascoltarlo nell’espressione di sè stesso e ha apprezzato la sua unicità (il bisogno di definizione di sè);
  • Ha offerto risposte sensibili alla sua storia di vita e alle espressioni di sé rendendo significativi e preziosi i suoi pensieri, sentimenti, paure e comportamenti (il bisogno di valorizzazione, di affermazione e di assumere significato all’interno di una relazione);
  • Gli ha fornito affidabilità, incoraggiamento e informazioni utili (il bisogno di accettazione da parte di altri stabili, affidabili e protettivi);
  • Gli ha permesso la condivisione delle proprie esperienze di vita che rispecchiano le sue esperienze fisiche, emotive e relazionali (bisogno di mutualità e di conferma dell’esperienza personale):
  • Ha dato riscontro alla sua crescente capacità di suscitare una risposta emotiva negli altri, di lasciare un segno negli altri e che, a loro volta, sono stati influenzati dalle sue richieste, opinioni e preferenze. Maria una volta gli disse: “Quando parlo della mia solitudine e mi dici come ti senti, sono davvero emozionata, come se potessi sentire attraverso di te.” (il bisogno di avere un impatto su un’altra persona)
  • Si è interessato a lui di propria iniziativa, chiede la sua opinione e indaga sulla sua salute e su ciò che sta accadendo nella sua vita quotidiana. Ad esempio, Francesco e Cecilia spesso chiedono se tende ad essere compiacente nel gruppo o se sta veramente esprimendo sè stesso. Altri membri del gruppo si interessavano della sua salute, chiedono, per esempio, se mantiene pulita la sua protesi: il gruppo sa che la manutenzione è essenziale per evitare che a Giuseppe compaiono infezioni e forti dolori alla schiena (il bisogno di avere l’iniziativa da parte dell’altro).
  • Ha accolto con favore le sue espressioni di apprezzamento, gratitudine e affetto. Giuseppe è una persona gentile e amorevole e nel gruppo incontra persone come lui. Ad esempio, Luca lo abbraccia, Sofia sta imparando a esprimere i suoi sentimenti e Giuseppe la aiuta, come un’insegnante (il bisogno di esprimere l’amore).

Nel gruppo, Giuseppe ha trovato un posto in cui può sentirsi vivo, fiducioso verso sé e un luogo in cui è possibile soddisfare le sue esigenze relazionali. Nella sua psicoterapia individuale aveva iniziato a definire la sua identità in relazione con un altro significativo (io come sua terapeuta) e a sentirsi al sicuro, rispecchiato e rispettato. Nel lavoro individuale abbiamo costruito le ali con cui Giuseppe poteva volare; con il supporto del gruppo, ha iniziato a spiccare il volo.

Psicoterapia Individuale

La partecipazione attiva di Giuseppe al gruppo terapeutico è diventata possibile solo dopo gli intensi 18 mesi di psicoterapia individuale. Giuseppe mi è piaciuto fin dalla prima seduta. Ha gli occhi neri, vividi e profondi, curiosi e bisognosi, ma sono anche occhi che esprimono competenza, esperienza rispetto alla vita. Ha un corpo minuto, la barba e folti capelli neri. Fisicamente, mi sembra sia un uomo che un bambino, nello stesso corpo. In seguito, avrei appreso che la mia impressione, rispetto alla sua struttura fisica, rifletteva la sua struttura psicologica: in primo piano è l’uomo (consapevole, ben informato, con piena capacità di ragionamento), e sullo sfondo è il bambino (ritirato e silenziosamente sofferente).

Giuseppe giunge in terapia per un disagio legato a forti sbalzi d’umore, passa da una profonda tristezza a momenti molto attivi in cui si sente “bene, quasi troppo bene”. Questo costante cambiamento è estenuante e lo lasciava con scarsa energia. Nella nostra prima seduta, mi è evidente che avrei lavorato con due persone in un corpo solo: un Giuseppe triste e un Giuseppe pieno di vita e di energia.

Da un lato, stavo affrontando un ragazzo con un grande desiderio di fare, di incontrare nuove persone (si era trasferito di recente a Milano) e di avviare nuovi progetti professionali. Giuseppe mi comunica delle sue intenzioni con entusiasmo, con energia nella voce e nell’atteggiamento. D’altra parte, quando mi parla dei suoi problemi di salute, Giuseppe è freddo e distaccato, descrive le sue condizioni mediche in modo minuzioso, con precisione scientifica. Sebbene sia una specie di cartella clinica parlante, io mi sento profondamente commossa da quanta sofferenza fisica e psicologica ha dovuto sopportare. Mi risulta chiaro che le emozioni, legate a difficili esperienze di assistenza e ricovero, sono state bloccate e congelate, non ancora integrate.

La sua storia non aveva alcuna coloritura emotiva, era tutto bianco o nero. Non c’erano sfumature che dimostravano che Giuseppe aveva vissuto pienamente, con il corpo e la mente, le esperienze che descriveva.

Un doppio Giuseppe era seduto nel mio studio quel primo giorno, vi era una scissione di identità: da un lato un uomo razionale, capace e intelligente, dall’altro un Giuseppe nascosto che soffriva in privato.  Giuseppe mi stimolava a sentire con lui e per lui, ad esprimere le emozioni che provavo e che lui non era in grado di manifestare mentre parlava in modo distaccato dei suoi ricoveri, dei suoi interventi chirurgici e del dolore post-chirurgico.

Quando Giuseppe smise di parlare, sentivo qualcosa di incompleto. Ho realizzato che ero bloccata in una dimensione di controtransfert. Mi chiedevo se i miei sentimenti fossero un controtransfert reattivo a qualche conflitto irrisolto in me o se stavo rispondendo ad un suo bisogno di relazionarsi con una persona sensibile e coinvolta. Giuseppe poteva vedere l’espressione sul mio volto, la tristezza per il dolore che provavo e la rabbia verso il dottore che aveva commesso l’errore devastante che lo aveva danneggiato per sempre.

Mi stavo mettendo nei suoi panni, stavo empatizzando profondamente con le situazioni che aveva vissuto e gli stavo comunicando cosa provavo. Lui poteva vedere i suoi racconti suscitavano una risposta emotiva in me. Come abbiamo evidenziato più tardi nel nostro lavoro terapeutico, gli ho offerto un modello, un modello di come le relazioni che rispettano, supportano e facilitano la crescita psicologica e il cambiamento stimolano l’integrazione nell’individuo di corpo, sentimenti e mente.

Non è stato un avvio di terapia facile. Giuseppe si presentava disponibile alla terapia, pareva fiducioso e confidente nella nostra relazione. In realtà Giseppe mi studiava continuamente, capivo che faceva fatica a fidarsi, aveva un forte bisogno di essere ascoltato, rispecchiato, accompagnato, ma il timore di essere deluso, abbandonato, vigila sempre le nostre sedute. Lo comprendevp dai messaggi del corpo: Giuseppe mi sorrideva, era evidentemente compiacente ma il corpo era chiuso, ritirato, la muscolatura era rigida, il respiro corto, notavo delle espressioni di dubbio, a volte dissenso nel viso. Per lungo tempo non ho confrontato questa incongruenza, sapevo che potevo raggiungere la fiducia di Giuseppe: dovevo essere paziente, coerente, attenta e amorevole. Mi veniva molto facile sintonizzarmi con lui.

Quando Giuseppe mi raccontava che la settimana era stata difficile, che aveva avuto forti dolori, che aveva dovuto faticare per lavorare e che le notti erano state un inferno, io mi dispiacevo sinceramente e lui percepiva chiaramente il mio stato d’animo. Furono fin da subito sedute intense, emotivamente e di elevata concentrazione. Dovevo mantenere sempre, costantemente la mia integrità, la mente sveglia e il cuore aperto.

Necessitava della mia attenzione vigile, della mia apertura emotiva e della mia recettività, ma in quantità che poteva gestire. Non potevo essere né troppo intensa né troppo vacillante nella mia attenzione verso di lui. Era necessario che mi sintonizzassi al suo ritmo naturale. Il mio principale lavoro terapeutico è stato quello di costruire la nostra relazione.

Mentre gli incontri continuavano, mi sono resa conto che qualcosa non funzionava nella terapia. Mi sentivo a disagio, nonostante l’intensità e l’attenzione del mio ascolto, sentivo che mi stavo perdendo qualcosa. Ho iniziato a provare irritazione nei nostri incontri. Mi chiedevo se mi agganciando in un controtransfert negativo, per cui alcune questioni nella mia vita stavano interferendo con la mia capacità di essere empatica.

Quando ho iniziato la mia supervisione in psicoterapia integrata, ho avuto un importante insight. Ho descritto al mio supervisore che da qualche seduta Giuseppe si lamenta di tutto, aveva un tono monocorde, insidiante e colpevolizzante, come se mi accusasse dell’insuccesso della terapia, come se mi dicesse che, nonostante i suoi sforzi, la terapia non funzionava, non stava meglio. Mi sentivo invasa, affaticata, impotente. Il tono di Giuseppe era lamentoso, monocorde, come un suono che non ha alti e bassi.

Il mio supervisore mi chiese: “Quanti anni ha Giuseppe quando si lamenta? Qual è la tua sensazione di pancia?” Mi si apre l’immagine di un bambino, un neonato, nella culla che piange dimessamente. Recupero il ricordo del suono del lamento di Giuseppe, è’ un lamento continuo, quasi senza pause e a voce bassa, un tono che esprime un dolore auto riferito, come se parlasse a sé e non volesse segnalare un disagio all’esterno, non c’è richiesta nella voce. Comprendo che è un suono di dolore muto, non chiama perchè “sa” che quel dolore è parte del suo quotidiano, è rassegnato, ha imparato ad autoregolarsi affettivamente, ha trovato una modalità autoconsolatoria per abbassare i livelli di tensione. Quest’immagine mi emoziona, provo compassione e affetto per quel bambino.

Pensavo a Giuseppe e a ciò che aveva dovuto sopportare nei suoi primi mesi: un neonato sofferente, che non veniva toccato, esausto dal suo pianto implacabile e solitario, un pianto tra sé, senza l’aspettativa di sollievo, il pianto di un dolore muto.

Ho realizzato che il lamento di Giuseppe esprimeva il dolore fisico e l’intorpidimento emotivo causato dalla mancanza di legame ad una figura materna stabilizzante e confortante. Mi chiedevo quali tipi di schemi di attaccamento avesse formato e come avesse stabilizzato e regolato sé stesso. Il suo lamento era una forma di auto-regolazione? Ho avuto spesso dei momenti durante i quali ho rivisitato l’immagine dello sviluppo che avevo formato di Giuseppe come di un bambino bisognoso di conforto fisico e cura materna. Questa immagine era profondamente commovente, provavo amore e compassione per quel bambino.

Nell’incontro successivo con lui ho cercato di sintonizzarmi con l’affetto e il ritmo inespressi di Giuseppe, per rivedere l’immagine evolutiva del bambino sofferente, e per stabilire il tipo di contatto relazionale di cui avrebbe avuto bisogno un bambino trascurato. La mia reazione controtransferale era ora reattiva: una reattività piena di emozioni di cui aveva bisogno quel bambino per guarire dalla lesione relazionale di abbandono materno prolungato di cui aveva sofferto durante i suoi ricoveri molteplici. Ero piena dall’affetto e dal desiderio di assisterlo teneramente in modo tale che egli rivivesse terapeuticamente il suo passato. Ho detto a Giuseppe dell’immagine che avevo avuto di lui come di un bambino, dolorante e disperato da solo in ospedale. Ho descritto quanto mi sono sentita vicina a lui e come ho immaginato che lui si sentisse impotente. L’immagine ha avuto un forte impatto su Giuseppe: i suoi occhi si sono illuminati come se si fosse svegliato da un lungo sonno.  Sembrava che venisse da un mondo lontano mentre mi guardava negli occhi e iniziava a piangere. Mi ha chiesto di stringerlo e l’ho tenuto come se fosse un bambino, accarezzandogli la testa mentre piangeva con profondi singhiozzi. Ho pianto in risonanza con lui.

Questo è stato un momento importante della terapia, che ha aperto un nuovo modo di lavorare insieme.

Senza quell’immagine evolutiva di Giuseppe come di un bambino trascurato, avrei perso l’opportunità di stabilire un vero contatto interpersonale con il bambino sopraffatto dentro di lui e di raggiungerlo nel suo mondo interiore di ricordi impliciti. Invece, mi sono unita a Giuseppe nella sua esperienza emotiva. Ero con lui, lo vedevo, sentivo sia ciò che doveva aver sentito e ciò di cui aveva bisogno in una relazione di cura.

Durante gli incontri seguenti, abbiamo dedicato tempo all’esperienza fisica ed emotiva del neonato ricoverato e alla qualità del contatto di cura di cui avrebbe avuto bisogno: “ho passato ore senza che nessuno mi toccasse; ricordo il dolore feroce. Quando le infermiere mi toccavano erano delicate, ma non erano mani amorevoli”.

Abbiamo trascorso tempo ad elaborare cognitivamente il nostro lavoro insieme. Questi approfondimenti sono stati momenti di profondo scambio relazionale. Giuseppe disse di sentirsi capito e di provare un forte senso di sollievo fisico: “quando mi ha detto la tua immagine, mi sono sentito visto, come se avessi ricordato improvvisamente cosa mi fosse successo nella mia prima infanzia. Mi sono visto e ho sentito che mi hai visto davvero, nel mio dolore, nella mia esperienza.”

A seguito di questo lavoro Giuseppe riferì che si sentiva meno solo e impotente. Sentiva che c’era qualcuno lì a condividere con tutto il cuore le sue tristi vicende. Contenerlo aveva fornito diversi minuti di forte legame fisico e una convalida della sua esperienza: “è come se, attraverso te, fossi più vicino a me stesso. Mi sono reso conto che deve essere stato davvero difficile per me, sia in termini di dolore fisico che di solitudine.”

Giuseppe è stato così in grado di recuperare sensazioni e immagini alle quali in precedenza non aveva accesso. Abbiamo portato alla consapevolezza e dato significato ai suoi ricordi viscerali pre-simbolici. Abbiamo svelato la storia fisica ed emotiva e iniziato a usare le parole per rendere comprensibile la memoria implicita. Giuseppe stava integrando le sue memorie fisiologiche ed affettive con la sua attuale capacità cognitiva, era in grado di vedere quanto il suo senso pervasivo di solitudine e i suoi comportamenti ripetitivi fossero collegati alle sue interruzioni relazionali di contatto della prima infanzia. “Ora, quando provo dolore fisico, so che un senso di pesante disagio mi coinvolge, un senso di sfiducia rispetto alla possibilità di farcela. È come se fossi ancora lì in ospedale, dove sono stato curato ma da solo.”

Una volta che sono stata in grado di utilizzare il concetto di immagine evolutiva, di sintonizzarmi sui bisogni fisici e relazionali del bambino, ed essere pienamente coinvolta sia con il bambino che l’uomo, ho potuto capire più profondamente come le sue reazioni di sopravvivenza fisiologica precoce e le implicite conclusioni esperienziali abbiano modellato il suo copione di vita. A causa dei ricoveri e dell’incapacità dei suoi genitori, immaturi e inesperti, di provvedere a lui, non sempre capaci di offrirgli sollievo dal suo dolore fisico, Giuseppe ha vissuto un senso di perdita di speranza e di onnipresente sfiducia sia nella possibilità di fare affidamento sia sugli altri che su sé stesso. Le esperienze di Giuseppe mi hanno ricordato i concetti di Milton Erikson relativi ai compiti evolutivi dei primi due anni di vita del bambino, concetti che mi hanno supportata nel lavoro con Giuseppe da un’ottica evolutiva (Erskine, in stampa).

Giuseppe aveva elaborato una definizione di sé stesso come di una “persona senza speranza”. Questa definizione forniva le funzioni psicologiche e copionali di auto-stabilizzazione, identità e rassicurazione Erskine e colleghi, 1999). Le sue credenze di copione includevano “allungherò la mano e non la prenderà nessuno”, “devo contare solo su me stesso”, “ci riuscirò da solo” e “non posso sperare”. Queste credenze infantili hanno mantenuto la sua sofferenza internamente e hanno interferito con la qualità del suo contatto personale con gli altri. Le nostre sessioni di psicoterapia erano indirizzate ad ognuna di queste credenze di copione e a come riflettessero le sue esperienze reali da bambino. Ci siamo anche concentrati sul modo in cui ognuna di queste convinzioni ha interferito con il soddisfacimento dei suoi bisogni di adulto incontrati nelle relazioni.

Il nostro dialogo terapeutico si è spesso dedicato al suo costante dolore fisico, al conseguente affaticamento, al senso di sentirsi impossibilitato ad avere una “vita normale” e alla solitudine e disperazione vissute durante i suoi ricoveri. Abbiamo lavorato ripetutamente sul trauma dovuto alla trascuratezza ripetuta, cumulativa. Giuseppe ha scoperto ciò che abbiamo chiamato “trappole”, cioè le varie credenze di copione che venivano riattivate di volta in volta.  Poteva iniziare a vedere la differenza tra la sua vita di oggi e il suo modo di capire, interpretare la realtà di quando era bambino.

La frequente lotta per vivere ogni giorno e per mantenere la speranza, è un tema centrale nella terapia di Giuseppe.  In particolare, durante una sessione mi riferì: “c’è una voce dentro di me. È rumorosa e mi dice che la vita non ha senso, che tutte le cose che faccio sono insignificanti.” L’ho incoraggiato a far parlare la voce, emerge una rabbia forte, profonda per tutti i torti subiti.

Nella furia maledice tutti e tutto, inclusi la sua fidanzata e il suo lavoro. Approfondiamo l’origine della rabbia, torniamo indietro nel tempo per comprendere a chi era diretta originariamente la rabbia. Giuseppe immagina di parlare con il chirurgo che aveva compromesso la sua salute.

Giuseppe urlò al dottore con parole forti che esprimevano il suo risentimento e la sua rabbia.

E’ un momento catartico per Giuseppe, esprime la sua forza, la sua determinazione, si fa giustizia, comunica al mondo la verità, per anni taciuta e inibita. Io lo sostengo, gli sto vicino, lo invito ad esprimersi liberamente, con le parole, con il corpo. Giuseppe si arrabbia, batte i pugni sul divano: per la prima volta si attiva, agisce nella protezione del suo Bambino.

Nonostante la sua storia, Giuseppe ha una forte spinta vitale, la sua physis, “una spinta interna verso la salute e la crescita, l’impulso di fare qualcosa di diverso e nuovo, l’aspirazione ad essere pienamente noi stessi e ad avere scelta sul nostro destino” (Erskine, 2011, pt.2). Ha lottato per sopravvivere da bambino, ha sofferto di dolore fisico e abbandono cumulativo, si è impegnato in una psicoterapia approfondita e sta cambiando il copione della sua vita.

Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, molto conosciuto in Italia, dice che la nostra nascita non è solo un evento biologico, ma anche qualcosa che accade perché il nostro corpo dice “sì” alla vita, quindi si sceglie di nascere (Recalcati, 2016). Il “sì” per Giuseppe ora era più forte della sua malattia e più forte del suo primo intervento chirurgico, quello che gli ha quasi negato la possibilità di condurre una vita normale.

Il lavoro di terapia di Giuseppe ha come obiettivo quello di avviare una nuova narrazione della propria vita, che gli permette di integrare la scissione del suo senso di sé: il bambino ospedalizzato, emotivamente limitato e, insieme, il giovane uomo attivo, psicologicamente attento e competente. Giuseppe comincia ad avere entusiasmo e progetti per il suo futuro e, contemporaneamente, compassione e comprensione verso di sé, per le interruzioni relazionali di contatto che ha subito nella sua prima infanzia e rispetto per come aveva ha il dolore fisico e la trascuratezza emotiva.

La psicoterapia focalizzata sulla relazione ha stimolo, avviato i cambiamenti nella vita di Giuseppe. Abbiamo lavorato con e attraverso la nostra relazione, concentrandoci sulle interruzioni di contatto nella sua prima infanzia e sulla funzione riparativa della relazione terapeutica. Il lavoro terapeutico ha una specifica ottica evolutiva, fa riferimento alla teoria dell’attaccamento e alla conseguente disfunzione psicologica che insorge quando un bambino non può attingere ad una base sicura. (Bowlby, 1988; Erskine, 2009). Un attaccamento sicuro nella relazione terapeutica fornisce a Giuseppe una base sicura. Dovevo essere una psicoterapeuta attenta, capace di dare valore, supportiva e protettiva, una madre sostitutiva, che credeva fermamente che egli avrebbe potuto superare le ferite e l’abbandono del suo passato e creare una nuova vita attiva e ricca di buone relazioni.

Giuseppe oggi

Il nostro lavoro non è finito. Stiamo procedendo verso il nostro obiettivo terapeutico condiviso: risvegliare un senso di fiducia verso le persone e verso il suo futuro, stabilire il pieno contatto con sé stesso e creare relazioni intime. Giuseppe continua il lavoro di psicoterapia nel setting di gruppo. Vive le sue esperienze nel mondo e torna al gruppo per riportare, confermare e approfondire la sua competenzae la fiducia in sé stesso. Conosce le sue “trappole”, sa che periodicamente il senso di sfiducia e impossibilità lo attraversano, ma sa anche ce può attingere internamente ad una esperienza concreta di fiducia e di speranza verso la vita sempre più radicata in lui.

Articolo originale

Working relationally and developmentally in Integrative Psychotherapy: facilitating significant change. International Journal of Integrative Psychotherapy, Vol. 10, 2018.

Traduzione in italiano a cura di:

Silvia Allari è una psicoterapeuta clinica con un orientamento in Analisi transazionale, è anche un formatore, supervisore e Psicoterapeuta Integrativo Certificato Internazionale. Vive e lavora a Milano, fa terapia individuale e di gruppo. E’ stata socia del Centro Berna a Milano.

Riferimenti:

Bowlby, J. (1988). A secure base. New York, NY: Basic Books.
Erskine, R. G. (2009). Life scripts and attachment patterns: Theoretical integration and therapeutic involvement. Transactional Analysis Journal, 39, 207–218. doi:10.1177/036215370903900304
Erskine, R. G. (2010). Relational group psychotherapy: The healing of stress, neglect and trauma. International Journal of Integrative Psychotherapy, 1,1–10.
Erskine, R. G. (2011). The challenges of change and growth. Retrieved from www.integrativepsychotherapy.com.
Erskine, R. G. (2015). Relational patterns, therapeutic presence: Concepts and practice of integrative psychotherapy. London: Karnac Books.
Erskine, R. G. (in press). Child development in integrative psychotherapy: Eric Erikson’s first three stages. International Journal of Integrative Psychotherapy.
Erskine, R. G., Moursund, J. P., & Trautmann, R. L. (1999). Beyond empathy: A
therapy of contact-in-relationship
. New York, NY: Brunner/Mazel.
O’Reilly-Knapp, M., & Erskine, R. G. (2010). The script system: An unconscious
organization of experience. In R. G. Erskine (Ed.), Life scripts: A transactional analysis of unconscious relational patterns (pp. 291–308). London: Karnac Books.
Recalcati, M. (2016). La religione del corpo, il corpo e l’inconscio [The religion in
the body, the body and the unconscious]. Retrieved from www.psichiatryonline.it.

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